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pesca brasile
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Credo di non aver mai pescato sotto un acquazzone così violento e persistente, come la volta che decisi di insidiare il peacock bass a Rio De Janeiro. Avevo pianificato quella giornata di pesca varie settimane prima del mio viaggio di lavoro in Brasile, accordandomi con Alex, l’amico brasiliano e guida locale per la pesca sia in acque interne sia in mare, per andare sul lago Juturnaiba non appena le condizioni meteorologiche ci avessero dato un po’ di tregua. Il problema fu che la pioggia non cessò mai in quell’uggiosa settimana di ottobre e decidemmo, alla fine, di lanciarci all’avventura nonostante l’avversa situazione climatica.
  Il Lago Juturnaiba, situato in prossimità della città di Silva Jardim, richiese circa un’ora e mezza di macchina per essere raggiunto da Rio e pensai che nell’ultimo tratto di strada, quando dalla statale ci immettemmo in un lungo tratto sterrato simile ad una pista da rally, saremmo rimasti impantanati in qualche pozza, o addirittura finiti sui campi completamente allagati.
  Ciò che rimane ben impresso nei nostri ricordi sono talvolta immagini idilliache, quasi “cartolinesche”, di luoghi e paesaggi; talvolta, però, la visione di un ambiente o di un posto apparentemente non paradisiaco può infonderci sensazioni che difficilmente dimenticheremo: emozioni contrastanti e non sempre decifrabili, come quelle che provai non appena arrivammo al piccolo ristorante, collegato con la spiaggia di approdo delle barche dei pescatori, sul lago Juturnaiba. Fu come penetrare in una dimensione arcaica e meno consumistica del nostro mondo, dominata forse da una modesta agiatezza economica, ma non per questo priva di dignità.  Vedere una serie di secchi sotto rivoli d’acqua che cadevano dal soffitto del ristorante mi lasciò alquanto perplesso, così un certo turbamento lo provai osservando tutto il locale: decisamente fuori dell’ordinario e ben lontano dal concetto del luogo di ristoro qui nel nostro Paese, ma anche nella stessa città di Rio.
  Attendemmo più di due ore prima che la pioggia e il vento cessassero e ci consentissero di iniziare la nostra battuta di pesca, e in quel lasso di tempo mi fu servito un piatto con uno strano pesce locale cotto in guazzetto: una sorta di animale preistorico, simile a un piccolo storione, dotato di pelle durissima, quasi ossea, e per mangiarlo bisognava estrarre la carne con la punta del coltello da una delle estremità del suo corpo tagliato a metà. Un pesce buonissimo, forse uno dei migliori tra quelli di acqua dolce che abbia assaggiato in vita mia.

LANCI TRA LE GOCCE DI PIOGGIA

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Il lago rifletteva il grigiore compatto delle nuvole e appariva come un’infinita lastra di piombo. Decidemmo di esplorare il dedalo di cannucce e giacinti d’acqua che si articolava lungo una zona del sottoriva distante circa cinquecento metri dal punto di approdo. Io impiegavo una potente canna da mosca armata con una lenza intermedia del nove, sulla quale avevo innestato un finale al fluorocarbon sui tre metri col tip dello 0,26. Quale mosca avevo optato per una Puglisi simile a un piccolo persico e costruita su un amo da mare del 2/0. Alex, invece, essendo un appassionato di spinning, aveva preferito una corta canna per esche dai sette ai venti grammi, munita di mulinello a bobina rotante caricato con monofilo di nylon dello 0,30. Con questa pratica attrezzatura, usava alternatamente popper galleggianti di circa quindici centimetri e Minnow semi-galleggianti della medesima taglia, entrambi scelti in colorazioni sgargianti. L’azione di pesca era piuttosto semplice: ci eravamo posizionati a circa quindici/venti metri dalla sponda e, avvalendoci di un piccolo motore elettrico, costeggiavamo lentamente il perimetro del lago mentre ispezionavamo coi lanci il sottoriva. Recuperavamo le esche a velocità diverse, facendole scendere più o meno in profondità: nelle zone meno ricche di piante sommerse, consentivamo agli artificiali di inabissarsi leggermente prima di avviare il recupero, ovunque abbondavano le erbe affioranti, invece, cercavamo di mantenere le insidie in prossimità della superficie o, nel caso dei poppers di Alex, sopra questa.
  Il peacock bass è un vorace predatore, particolarmente irascibile e reattivo nei confronti degli artificiali sostanziosi e variopinti che transitano nella sua zona di caccia, e sferra attacchi fulminei e violenti quando intercetta un boccone, soprattutto se questo nuota sul pelo dell’acqua. Un pesce estremamente sportivo, che vanta un nutrito numero di appassionati, i quali lo insidiano prevalentemente con la canna da frusta o da spinning, sebbene sul lago Juturnaiba molti pescatori locali lo tentino anche col vivo, innescando pesciolini dall’aspetto simile a quello di un sarago.
  La prima abboccata la ricevemmo in prossimità di un isolotto di giacinti d’acqua. Il pesce aveva rivelato la sua presenza compiendo una vigorosa cacciata contro un branchetto di pesciolini: una piccola preda era poi saltata fuori dell’acqua un paio di volte prima di scomparire in un turbinoso gorgo. Provai ad effettuare un lancio preciso, ma essendo poco avvezzo all’uso di quella mia pesante canna, indirizzai l’esca ben lontano dal bersaglio. Alex, invece, fece cadere il suo popper proprio dov’era sparito il pesciolino e non appena mise in tensione la lenza, dando un po’ di “vita” all’artificiale, uno sciame di spruzzi esplose sulla superficie. Un bel peacock bass aveva abboccato, ma nella foga del suo assalto era riuscito ad evitare il contatto con le ancorette. Alex avvertì soltanto un brusco strattone e poi vedemmo quello splendido pesce scartare sotto il pelo dell’acqua e scomparire sotto un cespuglio di giacinti galleggianti.

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Trenta metri più avanti fu il mio turno. Avevo sostituito la Puglisi con un modello analogo per colore e aspetto, ma di taglia assai più piccola. Effettuai un lancio abbastanza lungo e disteso e riuscii a depositare l’esca all’interno di una piccola baietta tra la vegetazione riparia, attesi che la mosca affondasse per una ventina di centimetri e avviai il recupero. Alla terza gugliata di lenza che tirai avvertii una strappata, inarcai istintivamente la canna e allamai il pesce. Un giovanissimo peacock bass apparve subito sotto la barca, incapace di opporsi alla pressione esercitata da un’attrezzatura esageratamente potente per la sua taglia. Il mio primo “tucunaré”, così è chiamato il persico pavone in Brasile, un’autentica meraviglia, ma decisamente troppo piccolo e quindi lo rilasciai immediatamente, evitandogli anche lo stress di una foto.
  Insistemmo ancora una ventina di minuti su quello spot, ma di pesci non ne vedemmo più, quindi ci spostammo in una zona del lago dove si immettevano tre piccoli fiumiciattoli. Un posto apparentemente buono e, a detta di Alex, tra i più interessanti per conseguire la cattura di un persico pavone di qualche chilo. Le copiose piogge avevano intorbidito i le acque dei rii e tutta la zona del lago circostante la loro imboccatura aveva assunto una colorazione simile al cioccolato. Realizzammo qualche lancio tanto per non lasciare nulla di intentato, consapevoli che in quelle condizioni difficilmente avremmo ricevuto delle abboccate. Intanto la pioggia aveva ripreso a cadere copiosa e i nostri impermeabili di fortuna, scovati da Alex nel bagagliaio della sua auto, ci offrivano ben poca protezione. Quando avvertii l’acqua penetrare ben oltre i miei pantaloni, suggerii una sosta per il pranzo e puntando un ombrellone da spiaggia davanti alla prua della nostra imbarcazione, tornammo all’approdo del ristorante. Di solito mangio raramente i pesci d’acqua dolce che catturo, in quanto non sono un grande estimatore delle loro carni. Il persico, il coregone, l’anguilla e talvolta la trota finiscono nei piatti di casa mia, apprezzati più dai miei cari che da me. Eppure in quel piccolo e singolare ristorante sul lago Juturnaiba assaggiai per la seconda volta una pesce d’acqua dolce davvero squisito. La cuoca, infatti, ci aveva preparato per pranzo dei filetti di peacock bass fritti, servendoceli su un letto di insalata e pomodori. Lì per lì pensai che si trattasse di un pesce di mare come la cernia, giacché le carni erano bianche, piuttosto magre, con poche spine e molto saporite, ma Alex mi assicurò che era proprio lo splendido persico pavone che stavamo pescando.
  Dopo pranzo il cielo si aprì nuovamente e ripartimmo alla volta del medesimo spot che ci aveva regalato le catture. Speravo di allamare un tucunaré di taglia accettabile e per questo avevo “innescato” nuovamente una Pugliesi costruita su un amo di grande misura. La pioggia aveva abbassato la temperatura dell’acqua e i persici pavone, che poco amano il freddo, avevano ridotto quasi del tutto la loro attività di cacciatori. Di fatto, il lago appariva pressoché privo di vita: una condizione di stasi che presagiva l’epilogo di quella giornata all’insegna del “cappotto”, e non soltanto in senso metaforico. Poi accadde l’imprevisto. Dalla sotto la barca apparve il lampo di un pesce che aveva tentato di azzannare la mosca proprio mentre la estraevo dall’acqua. Il persico rimase per un attimo interdetto e poi fuggi in profondità, presumibilmente perché ci aveva visto. Ci allontanammo di qualche metro dallo spot e attendemmo qualche minuto, quindi sia Alex sia io indirizzammo i nostri artificiali dove avevamo avvistato il nostro potenziale avversario. Ero poco speranzoso di ricevere l’abboccata, sicuro che il pesce fosse ancora troppo impaurito per tornare a cacciare, ma mi sbagliavo. Al secondo lancio e dopo aver recuperato due bracciate di lenza, avvertii la mangiata del tucunaré, inarcai istintivamente la canna e allamai il pesce. Ero entusiasta, perché quel persico, sebbene di dimensioni modeste per la sua specie, combatteva come un ossesso, costringendomi a forzarlo per impedirgli di intrufolarsi tra la vegetazione del fondale. Pochi minuti dopo avvicinai il pesce alla barca e lo issai a bordo afferrandolo per le sue labbra carnose: un peacock bass di circa un chilo, uno splendido maschio dalla splendida livrea e dalla caratteristica gibbosità sulla fronte.
  A quel punto cominciò a piovere veramente, “secchiate” d’acqua che bagnarono ogni singolo nostro indumento e non ci fu ombrellone o impermeabile che potessero evitarci una lunga e fredda doccia. Concludemmo così quella singolare esperienza: le cattive condizioni meteorologiche avevano condizionato negativamente la pesca, ma non mi avevano impedito di conoscere un pesce davvero straordinario in un ambiente decisamente fuori dal comune, un pesce che mi sono ripromesso di insidiare nuovamente in un prossimo viaggio a Rio De Janeiro.

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Sul lago Juturnaiba la pesca va condotta dalla barca, indirizzando gli artificiali a ridosso del sottoriva e recuperandoli in modo “rumoroso”


VARIOPINTO E AGGRESSIVO

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Il tucunaré appartiene alla famiglia dei Ciclidi ed è diffuso in numerose acque interne dell’America Latina e in Florida. Nello stato statunitense vi fu introdotto nel 1984, diventando la specie dominante di molti canali e raggiungendo taglie davvero ragguardevoli: molti lo considerano un pesce “infestante” a causa della rapidità con cui si diffonde a alla sua insaziabile voracità, ma tantissimi pescatori sportivi lo reputano un pesce meraviglioso.
 
Esistono sei specie di peacock bass: la Cichla temensis, la Cichla monoculus, la Cichla ocellaris, e la Cichla intermedia sono le più diffuse. Gli esemplari appartenenti alla Cichla temensis possono raggiungere il metro di lunghezza e il peso di svariati chili, rivelandosi avversari davvero formidabili e impegnativi per quei pescatori che hanno la fortuna di allamarli. Alcune specie possiedono peculiari fasce longitudinali lungo il corpo e una vistosa macchia, simile all’occhio di una penna di panone, sulla coda. La funzione di questa macchia è di confondere i possibili nemici, soprattutto quando il persico pavone è in età giovanile: sostanzialmente un predatore che prende di mira un piccolo tucunaré può sferrare l’attacco convinto di colpire di anticipo e al capo la sua vittima e questa, invece, riesce a schivare le fauci del nemico scattando in senso opposto.
 
I maschi del peacock bass sviluppano una prominente gibbosità sulla parte alta della fronte, che diventa più pronunciata nel periodo prossimo alla riproduzione: tali pesci vengono indicati dai pescatori col termine di “bull” (toro) e sono gli avversari più apprezzati, in quanto estremamente combattivi e instancabili.


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Il nome “peacock bass” deriva dalla vistosa macchia, simile all’occhio di una penna di panone, che questi pesci hanno sulla coda

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Molti pescatori brasiliani sono grandi appassionati del persico pavone e lo cercano in varie acque interne del loro immenso Paese

SPINNING E MOSCA

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Il tucunaré adulto segue una dieta prettamente ittiofaga e non esita a scagliarsi contro prede che ha poi qualche difficoltà ad ingoiare. In virtù di questo fatto, per insidiarlo è fondamentale servirsi di artificiali di buona misura, siano questi minnow da spinning o streamer per la canna da mosca.
  La sua tecnica di caccia si basa spesso sull’appostamento, perché attende che le prede attraversino la sua zona di pastura per scattare fulmineo e intercettarle, perciò dobbiamo prestare attenzione a tutti quei tratti d’acqua ricchi di anfratti che possono celare un peacock bass in agguato. Isolotti di erbe acquatiche affioranti, fronde di piante che si protraggono sulla superficie dell’acqua, insenature nel sottoriva, o tronchi di alberi sommersi sono il nascondiglio ideale del persico pavone e ovunque scorgiamo tali elementi dobbiamo concentrare la nostra pesca. Talvolta i persici pavone assumono comportamenti apatici e si dimostrano poco inclini ad abboccare le nostre esche: ciò accade in occasione di cambiamenti meteorologici, soprattutto se accompagnati da un sensibile abbassamento della temperatura. Conseguire delle catture in simili occasioni è tutt’altro che facile e di aiuto può essere l’attuazione di un sistema di pesca “rumoroso” e stimolante. In pratica bisogna far apparire il nostro artificiale “fastidioso” e invadente, presentandolo in maniera che richiami l’attenzione dei pesci, fomentando al contempo la loro aggressività. Con la tecnica dello spinning, ciò si ottiene montando sulla lenza un popper di buona misura e lanciandolo in acqua con una certa energia, o facendolo cadere da buona altezza, così che produca un vistoso “plop”. Il recupero deve essere eseguito poi con bruschi strappi, permettendo all’artificiale di zompettare in superficie.
  Impiegando la canna da mosca, è opportuno caricare il mulinello di una coda completamente galleggiante, innestando su questa un finale sui tre metri e mezzo e impiegare quale mosca un popper in pelo di cervo o in balsa. Anche in questo caso bisogna indurre l’insidia a produrre spruzzi e “rumore” con il recupero, rendendola irritante e spingendo il persico pavone a reazioni di attacco che possono prescindere dalla reale intenzione di assumere del cibo: il pesce, infastidito dal nostro “spregiudicato” intruso, può aggredirlo per ragioni di territorialità, o per dare sfogo al suo non sempre contenibile istinto di predatore.


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